Contributo di approfondimento:
L’integrità, la malinconia e lo sberleffo di LORIS DE
ROSA
YVONNE
CARBONARO
Questo lavoro
nasce dal profondo desiderio di Jone de Rosa, accarezzato da molti anni, di
recuperare la memoria di suo padre, il pittore Loris de Rosa, ingiustamente
dimenticato.
Per lei non si
tratta solo di un omaggio filiale. A sua volta pittrice, avendo fin da bambina
nella quotidianità domestica respirato l’odore della pittura, assorbito il
gusto della forma e del colore, maturato la sensibilità adeguata per
comprenderne la validità, sente fortemente il bisogno di restituire visibilità
ad un artista che mediante le sue forme espressive ha inciso fortemente
nell’ambiente culturale del suo tempo e ha anticipato modalità e contenuti.
Per me aderire
alla richiesta dell’amica Jone di un contributo al presente volume è la
naturale conseguenza della dimestichezza, direi familiarità con le opere del
padre che lei custodisce, stabilitasi per la lunga frequentazione della sua
casa. Da ciò: la conoscenza della biografia basata su ricordi familiari densi
di tenera affettività, l’amicale collaborazione nella ricostruzione del lungo
curricolo dell’artista impostata sull’analisi degli stralci di recensioni di
giornali e vecchi cataloghi gelosamente conservati e, infine, la condivisione
circa l’opportunità di realizzare una pubblicazione finalizzata al recupero e
alla storicizzazione di un personaggio che ha avuto un ruolo importante nel
mondo artistico del novecento napoletano. Percorrere
la storia personale e artistica di Loris de Rosa diventa infatti un forte
stimolo ad indagare su un periodo di storia civile e di storia dell’arte mai
abbastanza esplorato e ad approfondire le caratteristiche espressive e
comunicative di un pittore che tanta critica, informata essenzialmente su
posizioni di principio politico, ha finito per trascurare. Se non è necessario
condividere un’ideologia per comprendere l’assurdità di posizioni discriminanti
in qualunque settore, soprattutto in ambito artistico e culturale, è invece
necessario colmare la lacuna dovuta all'assenza di un'adeguata letteratura e
procedere alla meritatissima, e troppo a lungo rimandata, operazione di
riscoperta e rivalutazione.
L’iter di vita
e di creatività di un artista che è stato riconosciuto ai più alti livelli
durante il fascismo, negli “anni difficili”, come li definisce M. Picone nella
pubblicazione della Electa, che si è poi isolato a lungo in un cono d’ombra
sdegnosa, per ricomparire come protagonista negli anni sessanta-settanta,
comporta un lavoro di ricerca piuttosto complesso, ma allo stesso tempo
estremamente affascinante per chi vi si accosti. Si tratta di riandare ad una
fase storica oggetto al presente di vivaci dibattiti giacché ancora controversa
e confusa, eppure viva nel cuore e nella memoria di tanti al di là dei
reiterati psicoanalitici tentativi di rimozione. Riportare alla luce momenti di
un vissuto collettivo, di un sentire collettivo che attraversò per due decenni
il paese raccogliendo grande consenso popolare almeno fino al ‘40, non
significa giustificare e tantomeno avallare le responsabilità della dittatura
che trascinò la nazione in una guerra catastrofica, quanto ricostruire
l’atmosfera di entusiasmi giovanili all’interno dei Gruppi Universitari
Fascisti. Nel GUF, che era stato. fondato nel 1927, accanto a tanti nomi del
nostro panorama intellettuale divenuti in seguito molto noti, (per citarne alcuni: Michelangelo Antonioni,
Giorgio Bassani, Carlo Bo, Giorgio Bocca, Luigi Comencini, Renato Guttuso, Pietro Ingrao, Aldo Moro, Pier Paolo Pasolini
), si formò lo studente Loris De Rosa e nel corso delle competizioni dei
Littoriali della cultura e dell'arte, i concorsi di studenti
universitari iscritti al GUF che si svolsero dal 1934 al 1940, vide premiate le
sue composizioni artistiche fregiandosi così del titolo di Littore.
Nato a
Cagliari ma vissuto a Napoli fin da piccolo, va considerato un pittore napoletano
a tutti gli effetti per il contesto artistico-culturale nel quale visse e si
educò. Sposò Matilde Pettinelli, anche lei pittrice, allieva del Maestro
Gennaro Villani, che rinunciò alla carriera artistica a favore del ruolo di
moglie e madre delle due figlie Ione ed Elba, nate dalla loro unione. Matilde
fu sempre la sua più fedele ammiratrice. Lo incoraggiò e lo sostenne nei
momenti difficili trasmettendo alle figlie la capacità di apprezzare il senso
dell’arte paterna e l’amore dell’arte in genere.
Loris aveva
ricevuto una solida formazione artistica frequentando a Napoli l’Istituto
d’Arte. Preferì lavorare per lo più con olio su tavola di compensato, che
preparava con un impasto di colla di pesce e gesso. Talvolta riciclava anche
pezzi di cartone o adoperava fogli di carta. Il
suo maestro era stato Lionello Balestrieri, l’artista di Cetona che,
trasferitosi nel 1914 a Napoli dove in gioventù aveva avuto studiato con
Gioacchino Toma e ammirato Domenico Morelli, divenne direttore del Museo
Industriale e successivamente dell’Istituto delle Arti Industriali, rimanendovi
fino alla fine degli anni trenta. Avvicinatosi in Francia al liberty e quindi
in Italia al futurismo, Balestrieri aveva partecipato insieme al gruppo futurista
alla Biennale di Venezia del 1926 per ritornare più tardi allo studio del reale.
Loris, che era stato suo
allievo, partecipò nel 1934, al Concorso Nazionale per il Paesaggio di
Castellammare di Stabia, che contava sulla presenza di circa 200 artisti.
Uno stralcio della cronaca del
tempo molto colorita e illuminante del critico Piero Girace ci riporta simpaticamente
all’atmosfera che si era creata intorno all’evento che aveva attirato grandi
nomi da tante parti d’Italia e dall’estero:
…Fu una cosa veramente del
tutto insolita per gli stabiesi imbattersi in quelle indimenticabili giornate
dell’estate 1934 ogni momento in degli individui assai originali, che stavano
piantati intiere ore dietro ad un cavalletto, in mezzo alla strada, nel viavai della
gente e dei veicoli, o nelle viuzze dei borghi, e facevano gesti buffi, un
occhio intento al paesaggio ed un altro alla ragazzaglia, che si affollava
intorno ad essi, insistente ed avida di guardare i colori stemperati sulla
tela.
Era stato bandito da pochi giorni un premio di pittura di ventimila lire, da assegnarsi a quel pittore che sarebbe riuscito a fare il migliore paesaggio di Castellammare.
Quelle ventimila lirette, messe in palio dall’Azienda Autonoma di Cura e Soggiorno, avevano avuto la virtù di far accorrere in pochi giorni in Castellammare numerosi pittori da ogni parte d’Italia, i quali si eran dati a scorrazzare, qua e là, per Quisisana e Pozzano, nelle strade cittadine e nel porto, alla ricerca del bel paesaggio.
Ma che stranissima gara!
Erano scesi gli artisti da Torino, da Firenze, da Roma.
L’idea di una tale gara era nata, non si sa come, un bel pomeriggio di giugno, nell’albergo Stabia, tra le piante del giardino, da una conversazione di Achille Gaeta, Ermindo Campana e di chi scrive.
L’idea forse nacque per scacciare la noia del pomeriggio di giugno.
A Firenze, dopo pochi giorni si discuteva della cosa, davanti alle « Giubbe Rosse », e Dani e Pagliazzi mi chiedevano notizie e schiarimenti.
Ai primi di luglio quanta gente era già venuta quaggiù. L’albergo Stabia n’era pieno. Renato Mucci scrittore finissimo e poeta delicato, che si trovava a Castellammare e prendeva viva parte alle discussioni di quei giorni, diede il suo contributo per la buona riuscita del Premio.
Il primo a far la sua apparizione fu Bompard, il quale, intendiamoci, era venuto non per il premio, ma per trascorrere dei giorni lontano da Roma e dal « Travaso ». Bompard, fine, aristocratico, con una zazzeretta grigia, faceva venire in mente il professor Picard. Trascorrevamo spesso la serata insieme, davanti al caffè di don Aniello o passeggiando sul lungomare; ma non si parlava di pittura. Più che di pittura, con Bompard si parlava di romanzi umoristici. Invece di Goya mettevamo in campo don Chisciotte, invece di Constable Gulliver, invece di Manet o Renoir, Tartarin ed infine, invece di Fattori o Signorini, Pinocchio. Bompard aveva un’aria assai sbarazzina.
Arrivò un bel giorno Teodoro Brenson, un acquafortista russo, che vive da tanti anni a Parigi. Brenson era di media statura, aveva gli occhi celesti ed i modi delicati.
Il giorno dopo eravamo già amici cordiali. Prendemmo assieme un giorno la stradetta dell’Arcangelo Raffaele, corrosa dall’acqua piovana, ed entrammo in un vigneto. Sulle nostre teste pendevano certi grappoli di uva, dagli acini grossi, che facevan venire l’acquolina in bocca. Ad una diecina di metri da noi, su di una piazzuola alta della vigna, intorno a certe zucche gialle dalle foglie larghe e raspose, un volitar di moscerini nella luce festosa del sole occiduo. Brenson spiegava il cartoncino sul cavalletto, e guardava a lungo, come se facesse all’amore, la mole del vecchio castello di Quisisana, macchiata qua e là da chiazze di ombra, ed il muraglione coperto di edera, rasente il quale precipita una viuzza petrosa.
Durante questo tempo, il ragazzino, che egli aveva appaltato per il trasporto del cavalletto, piluccava tranquillamente l’uva. I capelli incolti, gli occhi vivacissimi, la maglietta gialla su i calzoni corti, le gambette snelle e nervose, questo ragazzo si divertiva un mondo a piluccar l’uva, ed a guardar il paesaggio del golfo, e poi i segni che Brenson tracciava sulla carta. Veniva dopo un poco a curiosare anche il contadino, che lavorava in quei pressi a falciare erba per le vacche. La maglietta bianca abbastanza sporca, la barba incolta e le gambe polpute: il contadino aveva una figura bacchica.
Lasciammo dopo un poco la vigna, e ce ne andammo al Santuario della Madonna della Libera. Questo piccolo Santuario ha una bianchezza immacolata, che vibra nella solitudine del monte.
Suonava l’organo. Brenson guardava sgomento. Tutto ad un tratto dalla finestretta della chiesa si affacciò un monaco(…).
Era stato bandito da pochi giorni un premio di pittura di ventimila lire, da assegnarsi a quel pittore che sarebbe riuscito a fare il migliore paesaggio di Castellammare.
Quelle ventimila lirette, messe in palio dall’Azienda Autonoma di Cura e Soggiorno, avevano avuto la virtù di far accorrere in pochi giorni in Castellammare numerosi pittori da ogni parte d’Italia, i quali si eran dati a scorrazzare, qua e là, per Quisisana e Pozzano, nelle strade cittadine e nel porto, alla ricerca del bel paesaggio.
Ma che stranissima gara!
Erano scesi gli artisti da Torino, da Firenze, da Roma.
L’idea di una tale gara era nata, non si sa come, un bel pomeriggio di giugno, nell’albergo Stabia, tra le piante del giardino, da una conversazione di Achille Gaeta, Ermindo Campana e di chi scrive.
L’idea forse nacque per scacciare la noia del pomeriggio di giugno.
A Firenze, dopo pochi giorni si discuteva della cosa, davanti alle « Giubbe Rosse », e Dani e Pagliazzi mi chiedevano notizie e schiarimenti.
Ai primi di luglio quanta gente era già venuta quaggiù. L’albergo Stabia n’era pieno. Renato Mucci scrittore finissimo e poeta delicato, che si trovava a Castellammare e prendeva viva parte alle discussioni di quei giorni, diede il suo contributo per la buona riuscita del Premio.
Il primo a far la sua apparizione fu Bompard, il quale, intendiamoci, era venuto non per il premio, ma per trascorrere dei giorni lontano da Roma e dal « Travaso ». Bompard, fine, aristocratico, con una zazzeretta grigia, faceva venire in mente il professor Picard. Trascorrevamo spesso la serata insieme, davanti al caffè di don Aniello o passeggiando sul lungomare; ma non si parlava di pittura. Più che di pittura, con Bompard si parlava di romanzi umoristici. Invece di Goya mettevamo in campo don Chisciotte, invece di Constable Gulliver, invece di Manet o Renoir, Tartarin ed infine, invece di Fattori o Signorini, Pinocchio. Bompard aveva un’aria assai sbarazzina.
Arrivò un bel giorno Teodoro Brenson, un acquafortista russo, che vive da tanti anni a Parigi. Brenson era di media statura, aveva gli occhi celesti ed i modi delicati.
Il giorno dopo eravamo già amici cordiali. Prendemmo assieme un giorno la stradetta dell’Arcangelo Raffaele, corrosa dall’acqua piovana, ed entrammo in un vigneto. Sulle nostre teste pendevano certi grappoli di uva, dagli acini grossi, che facevan venire l’acquolina in bocca. Ad una diecina di metri da noi, su di una piazzuola alta della vigna, intorno a certe zucche gialle dalle foglie larghe e raspose, un volitar di moscerini nella luce festosa del sole occiduo. Brenson spiegava il cartoncino sul cavalletto, e guardava a lungo, come se facesse all’amore, la mole del vecchio castello di Quisisana, macchiata qua e là da chiazze di ombra, ed il muraglione coperto di edera, rasente il quale precipita una viuzza petrosa.
Durante questo tempo, il ragazzino, che egli aveva appaltato per il trasporto del cavalletto, piluccava tranquillamente l’uva. I capelli incolti, gli occhi vivacissimi, la maglietta gialla su i calzoni corti, le gambette snelle e nervose, questo ragazzo si divertiva un mondo a piluccar l’uva, ed a guardar il paesaggio del golfo, e poi i segni che Brenson tracciava sulla carta. Veniva dopo un poco a curiosare anche il contadino, che lavorava in quei pressi a falciare erba per le vacche. La maglietta bianca abbastanza sporca, la barba incolta e le gambe polpute: il contadino aveva una figura bacchica.
Lasciammo dopo un poco la vigna, e ce ne andammo al Santuario della Madonna della Libera. Questo piccolo Santuario ha una bianchezza immacolata, che vibra nella solitudine del monte.
Suonava l’organo. Brenson guardava sgomento. Tutto ad un tratto dalla finestretta della chiesa si affacciò un monaco(…).
Concorreva (al premio)
Cortiello, che giunse in Castellammare con tanto di barba, al volante di una Ballila.
Cortiello aveva un’aria gioviale e contenta. Non così Gennaro Villani, cupo,
con le lenti, l’ombrello, che pareva un parroco di paese. Portava nella sua
cassetta gli ideali dell’ultimo ottocento.
Il romanticismo di Villani si scontrava nella stessa piazza con l’umorismo e l’ironia di Cortiello.
Arrivavano i toscani, (baldanzosi, allegri, con un zinzino di alterigia, e se ne andavano tutti insieme ai colli ed alle spiagge. Mi par di vederli ancora, fermi sulla banchina del porto, come quattro mitraglieri : Bausi, Dani, Bartolini e Zuccoli. Pagliazzi lavorava nelle Terme Stabiane, dove con tutta quella folla di villeggianti che bevevano acqua minerale, egli riuscì a fare un quadro veramente gustoso, con certe monache in primo piano, ch’era un piacere a guardarle. Terroni si aggirava, con la sua barbetta da satiro, sulla strada che da Quisisana mena a Monte Coppola.
Arrivavano i romani: Leonetta Pieraccini, moglie dello scrittore Emilio Cecchi, Nino Bertoletti e sua moglie Pasquarosa, Antonio Barrerà. Poi qualche piemontese: Domenico Valinotti, un tipo che ricorda per i suoi tratti fisionomici Papini e l’attore Viviani: un uomo colto dall’aria annoiata. Alcuni milanesi: Pompeo Borra, Natalia Mola e Donato Frisia, il quale come tutti i milanesi chiacchierava sempre. Un abruzzese: Michele Cascella, il quale poi è un miscuglio di abruzzese e di milanese, di esotico e di paesano. Altri toscani — la seconda spedizione: — Polloni, Vieri-Torelli, Piombanti, Alberto Caligiani. Qualche polacco: Lino Lipinskji. E poi ancora qualche russo: Erik W. Wesselow, il quale è un principe esiliato, ed è esile, biondo, vera figura d’artista insomma, come se ne incontrano nei romanzi del primo ottocento. Una genovese : Linda Ferrario. Un sardo: Cabras. Il milanese De Bernardi. E poi... e poi... la pattuglia serrata dei napoletani: Giovanni Brancaccio, Vincenzo Ciardo, Luigi Crisconio, Vincenzo Colucci, Francesco Girosi, Carlo Striccoli, Alberto Chiancone, Guido Casciaro, Loris De Rosa, Nives Filiasi, Alberto Serao, Vincenzo D’Angelo, De Lisio, Francesco Paolo Diodati, Tito Diodati; gli stabiesi: Guglielmo Spagnuolo, Gaetano Di Capua, Cascone e Filosa… (Piero Girace al poeta Renato Mucci da “LE ACQUE E IL MAESTRALE” )
Il romanticismo di Villani si scontrava nella stessa piazza con l’umorismo e l’ironia di Cortiello.
Arrivavano i toscani, (baldanzosi, allegri, con un zinzino di alterigia, e se ne andavano tutti insieme ai colli ed alle spiagge. Mi par di vederli ancora, fermi sulla banchina del porto, come quattro mitraglieri : Bausi, Dani, Bartolini e Zuccoli. Pagliazzi lavorava nelle Terme Stabiane, dove con tutta quella folla di villeggianti che bevevano acqua minerale, egli riuscì a fare un quadro veramente gustoso, con certe monache in primo piano, ch’era un piacere a guardarle. Terroni si aggirava, con la sua barbetta da satiro, sulla strada che da Quisisana mena a Monte Coppola.
Arrivavano i romani: Leonetta Pieraccini, moglie dello scrittore Emilio Cecchi, Nino Bertoletti e sua moglie Pasquarosa, Antonio Barrerà. Poi qualche piemontese: Domenico Valinotti, un tipo che ricorda per i suoi tratti fisionomici Papini e l’attore Viviani: un uomo colto dall’aria annoiata. Alcuni milanesi: Pompeo Borra, Natalia Mola e Donato Frisia, il quale come tutti i milanesi chiacchierava sempre. Un abruzzese: Michele Cascella, il quale poi è un miscuglio di abruzzese e di milanese, di esotico e di paesano. Altri toscani — la seconda spedizione: — Polloni, Vieri-Torelli, Piombanti, Alberto Caligiani. Qualche polacco: Lino Lipinskji. E poi ancora qualche russo: Erik W. Wesselow, il quale è un principe esiliato, ed è esile, biondo, vera figura d’artista insomma, come se ne incontrano nei romanzi del primo ottocento. Una genovese : Linda Ferrario. Un sardo: Cabras. Il milanese De Bernardi. E poi... e poi... la pattuglia serrata dei napoletani: Giovanni Brancaccio, Vincenzo Ciardo, Luigi Crisconio, Vincenzo Colucci, Francesco Girosi, Carlo Striccoli, Alberto Chiancone, Guido Casciaro, Loris De Rosa, Nives Filiasi, Alberto Serao, Vincenzo D’Angelo, De Lisio, Francesco Paolo Diodati, Tito Diodati; gli stabiesi: Guglielmo Spagnuolo, Gaetano Di Capua, Cascone e Filosa… (Piero Girace al poeta Renato Mucci da “LE ACQUE E IL MAESTRALE” )
E Loris de
Rosa a soli venticinque anni, vinse il 1° PREMIO. Da quell’episodio il suo nome
balzò in vetta nell’ambiente degli artisti in un crescendo di gratificazione e
di entusiasmi. Gli anni dal 1934 all’inizio della guerra furono i più intensi
per partecipazione a mostre prestigiose e per i molti riconoscimenti ufficiali
che ne seguirono. Partecipò alle Sindacali delle Belle Arti, a varie
Intersindacali, Quadriennali di Roma e alla Biennale di Venezia. Fu invitato nel
1934 alla Fiera di Bologna – per il Paesaggio - insieme a Cascella, Casciaro ,
Bassano, Zuccoli, Grandi, Girosi e a tanti promettenti nomi dell’arte del ‘900.
In giuria tra gli altri vi erano Morandi e Pizzironi. Dall’ottobre 1934 al
gennaio 1935 fu presente alla – II Mostra Internazionale d’Arte Coloniale -
Cartello per la Difesa Aerochimica. Vinse il 1° PREMIO. con il manifesto
raffigurante il volto dell’Italia con la maschera antigas. Allo
scopo di ricostruire il clima in cui la gente allora viveva, ricordiamo che la
sindrome da bombardamento aero-chimico sulle città nel ventennio 1919-1939 è
paragonabile a quello da guerra nucleare degli anni della guerra fredda. L’utilizzo
di armi chimiche era cominciato sul fronte della I guerra mondiale causando
molte vittime. Il Protocollo di Ginevra del 1929 vietò l'uso di armi
batteriologiche, di gas velenosi e del bombardamento aero-chimico, ma numerose
furono le violazioni: nel Marocco spagnolo, in l'Unione Sovietica, in Libia.
Nel 1935 durante l'invasione dell'Etiopia quindicimila persone furono colpite:
ignorando il Protocollo di Ginevra l'esercito italiano usò l'iprite lanciandola
con le bombe e spargendola in polvere al suolo. Tutto ciò perché al fine di
abbreviare i conflitti si considerava utile il bombardamento terroristico
aero-chimico sui civili irridendo così il facile mito del "buon italiano".
Il “Concorso” per un manifesto propagandistico ed istruttivo
sulla guerra aerochimica nasceva dunque in questo contesto emotivo come
necessità di preparare la popolazione civile italiana ai metodi di difesa.
Era stato creato perfino un Autotreno per la difesa Aerochimica che girava
l’Italia con altoparlanti. Una “cattedra ambulante” come lo definisce il
filmato della Settimana Incom del 15 giugno 1935. Tutte le esercitazioni
antiaeree in cui veniva coinvolta la popolazione civile comprendevano l’uso di
maschere e tecniche antigas.
Oltre alla cartellonistica de
Rosa realizzò anche dei francobolli aderendo ai concorsi indetti dal regime e
vincendo nel 1938 il I Premio con il “Francobollo di Posta Aerea, Africa
Orientale Italiana”, con il volto del Duce scolpito in primo piano e un aereo
in volo sul territorio africano. Altro I Premio fu da lui conseguito nel 1940
per il “Francobollo per la prima Mostra Triennale d’Oltremare”. Tutto
ciò a seguito dell’entrata di Badoglio nel 1936 in Addis Abeba, capitale
dell’Abissinia. Sempre con l’intento di celebrare le colonie africane: Libia,
Eritrea, Somalia e Abissinia (più l’Albania e le Isole Italiane dell’Egeo), fu anche
deciso di realizzare una Mostra documentaria a cadenza triennale del lavoro italiano
nei vari paesi. Con regio decreto nel 1937 Mussolini volle che fosse istituito
l'Ente autonomo "Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare” in
Fuorigrotta. La scelta era caduta sulla città di Napoli per vari motivi. Si
intendeva innanzitutto offrirle nell’immediato un sostegno per farne ripartire
l’economia con impiego di manodopera locale in vista degli imponenti lavori di
costruzione e del completo riassetto urbanistico della zona di Fuorigrotta, ancora
fino a quel momento a vocazione prevalentemente agricola nonostante la presenza
dell’Ilva dal 1908. In proiezione si contava sugli ingenti sviluppi commerciali
che sarebbero stati prodotti dalle attività dell’Ente e dalle entrate “derivanti dalle esposizioni, da
pubblicazioni, da pubblici spettacoli e da qualsiasi altra attività” (come
recitava il relativo Statuto del 1938),
e sugli sviluppi turistici in quanto polo di attrazione dall’Italia e
dall’Estero per i visitatori dell’esposizione triennale. Si considerava infine che
la città, che grazie alla sua posizione geografica aveva avuto il ruolo
strategico di porto-ponte dell’impero, sempre più sarebbe venuta a configurarsi
come punto di partenza ideale per l’intera politica coloniale. Funzionale dunque
alla propaganda imperiale del regime e ai suoi fini espansivi, la Mostra fu
realizzata con padiglioni che stilisticamente ed esteticamente si richiamavano
ai paesi delle colonie.
...Furono circa 120 gli artisti chiamati a collaborare al
programma della decorazione artistica della Triennale d'Oltremare, l'imponente
repertorio di sculture, pitture murali, un mosaico di notevoli dimensioni,
decorazioni d'interni, pannelli e "tappeti" ceramici, fu realizzato e
quasi completamente distrutto in tempi brevissimi ed impresse il sigillo delle arti
visive alla città espositiva. Di questo vastissimo patrimonio restano oggi solo
alcune opere, essendo la maggior parte delle quali, purtroppo, andata distrutta
per le varie vicende, storiche e umane, che hanno colpito il complesso
espositivo (....) L'uso delle "arti plastiche sorelle" assunse
una funzione architettonica e comunicativa di primo piano. L'intero progetto
ornamentale costituì il fulcro di tutta la manifestazione e può essere
considerato come uno degli episodi emblematici del periodo in cui, da parte dello
stato fascista, viene sperimentato l'ambizioso piano di un'arte sociale e
politica attraverso le "grandi decorazioni". Nella Triennale
d'Oltremare, il nuovo mecenatismo statale nei confronti dell'arte a
destinazione pubblica, consentì non solo agli artisti appartenenti al Sindacato
ma anche agli artisti non iscritti al Sindacato Fascista Belle Arti, di
partecipare alla definizione delle "grandi" e delle
"piccole" immagini legate al tema delle colonie. (Giovanni Arena,
“La Mostra d'Oltremare documento storico-artistico e monumento del XX secolo”,
AA. VV, 2007; Id, “Intervento” Montreal, May
11-15, 2009)
Molti valenti artisti dunque furono a vario
titolo convocati per partecipare ai lavori (tra questi gli architetti Canino,
Cocchia, Piccinato, Pane; i pittori Notte, Girosi, Chiancone, Ricci, Ciardo, Prampolini),
così che le differenti tendenze stilistiche ed estetiche che all’epoca
coesistevano: futurismo, novecentismo, razionalismo, eclettismo, ecc...,
vennero a fondersi e a confrontarsi in un insieme unico di grande respiro e
dimensioni.
Loris de Rosa, e il
ricordo di ciò si è andato perdendo nelle nebbie dell’oblio né risulta in
nessuno degli studi che si sono poi pubblicati sulla Mostra d’Oltremare, ricevette
l’incarico dell’allestimento e della decorazione interna che svolse insieme all’architetto
Erberto Carboni e venne insignito nel 1941 dell’onorificenza di CAVALIERE dell’Ordine
della Corona d’Italia in qualità di “pittore
progettista per l’allestimento e decorazione interna della Mostra Terre
Italiane d’Oltremare in Napoli”. (Supplemento
ordinario alla “Gazzetta ufficiale”
del Regno d’Italia n. 306 del 30 dicembre 1941-XX, pag 53)
Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della
Corona d’Italia - 1941
Il complesso era stato inaugurato
in pompa magna il 9 maggio 1940
dal presidente della stessa, on. Vincenzo
Tecchio, alla presenza del re Vittorio Emanuele III,
ma la Prima Mostra si interruppe bruscamente dopo un mese per l'inizio della seconda guerra
mondiale e l’insieme subì molti danni dai bombardamenti. Solo nel
1948 la Repubblica procedeva alla trasformazione in ente autonomo "Mostra
d'Oltremare" che riprendeva la sua attività dopo i restauri del 1952 per
poi essere con alterne vicende nuovamente abbandonata per molti anni e
successivamente riaperta. Nella produzione artistica di De
Rosa fin dagli inizi si intrecciano la grafica orientata alla comunicazione e una
pittura più intimistica. Nell’attività finalizzata alle richieste di regime,
con convinzione non disgiunta da colpevole ingenuità ma sempre con la purezza
di intenti e slancio ideale che lo indussero a partire volontario per il
fronte, egli mostrava di aderire ai dettami istituzionali esprimendo ed
esaltando i valori imposti della grandezza dell’Impero nella raffigurazione dei
simboli del potere e della figura umana nello svolgimento del lavoro. Parallelamente
non smise mai di dedicarsi ai ritratti, alle nature morte di fiori e frutta, in
cui va manifestandosi una poetica pittorica volta alla meditazione e ad una
certa malinconia di fondo del suo carattere che lo induce a dilatare lo sguardo
sugli ampi spazi di marine solitarie, ma anche a soffermare l’attenzione su
cantieri navali, piazze e strade cittadine, in cui amava osservare e registrare
la presenza umana in piccoli gruppi intenti al lavoro o della folla in
occasione di eventi. Malinconia e attenzione verso il paesaggio e la vita
quotidiana della gente che subito dopo la guerra e poi negli anni della
maturità diventeranno più evidenti e incisive. Con
la fine della guerra, a cui aveva partecipato da combattente e da prigioniero,
e dopo la caduta del fascismo, accusato di solidarietà con il regime per la sua
fede politica, per i riconoscimenti conseguiti, per la notorietà che ne aveva
ricevuto e per la partecipazione in prima persona ad importanti avvenimenti
(nel 1936 si era recato alle Olimpiadi di Berlino in viaggio premio; aveva
avuto rapporti di familiarità con Italo Balbo di cui ammirava le prese di
posizione), rientrò nel programma di epurazione del 1944. L'Alto Commissariato per l'Epurazione e le Corti d'Assise Straordinarie
in verità furono in funzione solo fino alla precoce chiusura del suddetto programma
intervenuta nel giugno 1946 con l'amnistia dell’allora Ministro della Giustizia
Togliatti, volta ad una pacificazione nazionale. L'epurazione al momento era
stata vasta, ma limitata nel tempo, e i fascisti furono poi quasi del tutto
riabilitati. La maggior parte di essi si reintegrò facilmente nell’apparato
burocratico, operativo, politico e culturale della Repubblica scivolando in
maniera indolore da un passato di fascismo ad un producente proclamato
antifascismo. A Loris, come a tanti altri, era
pervenuta ufficiale richiesta di fare pubblica ammenda.
Sentendosene umiliato, orgogliosamente rifiutò e il velo del silenzio
cadde su di lui contemporaneamente ad uno strisciante ostracismo. Da allora si
chiuse in se stesso negandosi all’arte per circa venti anni. La sua coerenza,
la sua integrità lo indusse nel dopoguerra a troncare la carriera artistica pur
di non piegarsi a compromessi. La delusione per il crollo degli ideali
sinceramente coltivati in gioventù, la riflessione sul disastro della guerra,
l’amarezza per le discriminazioni dei nuovi politici, insieme ad un acre senso
di rassegnazione, pesarono fortemente su di lui e sul suo slancio creativo. Negli anni 1951-1966 si dedicò alla
grafica commerciale per le copertine dei supplementi e dei dischi della Vis
Radio in cui si evidenzia come l’estrosità dell’artista diventi funzionale agli
intenti promozionali per la vendita dei prodotti della casa discografica, indirizzati
alla partecipazione ai Festival di Sanremo e a quelli della canzone napoletana.
L’uso dell’immagine è di una modernità ante litteram tale da precorrere le più
recenti teorie della comunicazione e ricerche di marketing e, allo stesso tempo,
da offrire un quadro della trasformazione negli anni del senso estetico del
pubblico e delle tecniche di stampa.
Dopo più di un
ventennio riprende a dipingere: è una rinascita. Nel nuovo approccio con l’arte
lo sguardo inizialmente torna a soffermarsi sulla natura e l’osservazione
realistica viene trasfigurata con tratto di pennellate di sapore postimpressionista.
È la fase del recupero di soggetti già a lui cari: paesaggi, marine, nature
morte. Nei vasi di fiori appassiti e nei ritratti in modo particolare trasmette
il proprio stato d’animo, quel diffuso lirico senso di malinconia già evidenziato
in gioventù e un cresciuto bisogno di introspezione. Predilige la pittura dal
vero, con cavalletto en plein air, quasi a volersi sentire totalmente immerso
nello spirito della città di cui si sofferma a raffigurare angoli, vicoli,
piazze, edifici, chiese e monumenti come a volerla vivere, conoscere e
penetrare in tutti i suoi risvolti. E in questi dipinti ritroviamo la Napoli del
centro, dei palazzi storici, di piccole cappelle e di grandi cupole, fissata
idealmente in una dimensione senza tempo.
La contrarietà
per la piega che gli eventi degli anni di piombo andavano prendendo esplode ad
un certo punto nell’espressione di amaro sarcasmo raffigurato nei “pupi”. La
fase dei pupi, la più recente, che tocca gli anni settanta, sollevò molto
scalpore di pubblico e di critica e può essere considerata la più significativa
per l’intensità dell’impegno civile, per la maturità espressiva, per il
sapiente innovativo utilizzo di materiali. Gli spazi di metafisica straniazione
sono retti da una gamma cromatica molto variegata e limpida nella vivacità e
felicità di accostamenti di toni e di materiali. Alla svolta contenutistica e
stilistica si accompagna infatti una sperimentazione di tecniche con l’uso di
materiali diversi: collage con ritagli di quotidiani che riportano i fatti di
cronaca, frammenti di carta argentata e dorata che, fusi e inglobati dalla
pennellata di colore, contribuiscono a dare alla divagazione fantasiosa effetti
di spessore e concreta matericità. De
Rosa si concentra sulla satira politica e sociale inquadrando il mondo in una
caustica visione. Vicende politiche, rivolte, trasformismo, corruzione,
peculato e intrallazzi vengono presi in esame in un’arguta critica delle
istituzioni, nessuna delle quali sfugge alla sua ironia: chiesa, governo,
elezioni, partiti, manifestazioni di protesta. Il disincanto e il fastidio
impotente di fronte alle storture dominano esprimendosi senza accenti
qualunquistici quanto piuttosto in immagini di pacata ma arguta polemica. Pupi
e pulcinella sono i protagonisti della vita della nazione, marionette
manipolate come i vecchi pupi da occulti pupari che ne regolano i destini e gli
eventi. Pupi in piazza che protestano, pupi che crollano giù nell’inutile
tentativo di salire la scala e dunque di realizzare la scalata sociale o politica
o finanziaria, aule parlamentari riempite di pupi, cornici dorate che
costituiscono i limiti dei pupi imprigionati, duelli di pupi per la conquista
del bottino raffigurato da un pollo pronto per essere cucinato, carabinieri col
pennacchio che hanno catturato un pupo. Ci
troviamo di fronte ad una sintesi e interpretazione del reale con intenzione
provocatoria formulata per colpire l'emotività del fruitore e stabilire un
intenso dialogo visivo. Sono discorsi e messaggi di un’attualità sconcertante
trasmessi in maniera ilare eppure amara mediante un intenso simbolismo carico
di significati e allusioni fino allo sberleffo. Spunti di un'inquietudine
complessa e scomoda, le immagini si propongono giocosamente inquietanti, come
sassi lanciati per scherzo nello stagno del conformismo, scaturite
dall’esigenza di parlare a nome di tanti del destino che si andava disegnando
per il paese, di ciò a cui stavano portando e portano le azioni di coloro a cui
è demandato il potere. È la modalità con cui quest’artista di intelligenza
espressiva e pratica invita a fare: riflettere sulle conseguenze dell’agire di
chi ci rappresenta ma anche del nostro stesso agire quotidiano. Non essendoci
violenza né aggressione nei confronti dell'osservatore, le sue raffigurazioni
satiriche estrinsecate con la ludica pacatezza dell’uomo che ha vissuto (era
ormai vicino ai settanta), con la persuasione di una grammatica composta ma
incisiva e diretta, inducono così a meditare sui temi stridenti della società
del trascorso novecento, ma anche a confrontarci con le istanze morali ed
esistenziali del nostro contemporaneo. La fantasia creatrice di de Rosa,
sfociando nel surreale, si trastulla con maschere e pupazzi in un siparietto
che allude al grande teatro dell’esistenza, su cui ciascuno pirandellianamente
recita la sua parte, aiutandoci a capire, a dare voce e forma e concretezza
alla nostra inquietudine.
Loris de Rosa produsse moltissimo
dalla metà degli anni sessanta, epoca in cui la sua attività anche espositiva
fu assai intensa. Dipinse sempre da solo e mai ebbe il sostegno di alcun
assistente. Era solito tornare talvolta sullo stesso soggetto ripensandolo e
apportandovi modifiche e nuovi particolari o riprendendolo da differenti punti
di vista. Per un bilancio più completo della sua produzione, all’analisi attenta
e puntuale che Gogliettino ha avuto modo di svolgere sulle singole opere che
sono nella disponibilità delle figlie dell’artista, va aggiunta la
catalogazione, che resterà comunque parziale, delle pitture di quel periodo. L’apprezzamento
di estimatori e collezionisti ha fatto sì che molte siano disperse in case e
collezioni private che si è cercato di rintracciare in parte e di pubblicare
qui di seguito a titolo di documentazione anche se la qualità delle foto che ci
sono pervenute non è talvolta ottimale e non sempre ci sono pervenuti titoli e
misure.
In particolare
erano ricercati da professionisti e persone di cultura i suoi paesaggi e i suoi“palazzetti
napoletani,” che soffermandosi su elementi dell’ambiente urbano fissavano l’immagine
realistica ma non oleografica di luoghi della città risparmiati dalla guerra e
perciò cari all’immaginario collettivo.
(continua nella monografia la raccolta delle immagini delle opere reperite in varie collezioni e le testimonianze di chi conobbe l'artista)